Punta Macerola, una caccia al tesoro sulla cresta del Sirente

Era il 16 Gennaio dello scorso anno, una giornata uggiosa in basso, ma radiosa di luce sopra i 1900 metri quando, alla ricerca delle vette meridionali del Sirente, steccammo clamorosamente il Monte San Nicola; nel gioco perverso del su e giù per le tantissime cime della cresta infinita del Sirente, immersi nel bianco accecante della neve e persi nelle lontane e sottostanti nebbie non abbiamo capito nulla e abbiamo solo pensato di averla toccata. Era avvolta dalla nebbia e sfuggita alla nostra vista e quando uno dei sensi stecca è chiaro che l’obiettivo si manca. La voglia di chiudere la partita con questo piccolo monte e lo smanioso desiserio di Luca di conoscere il Sirente sono stati due motori sufficienti a mettere in cantiere il progetto. All’ultimo momento si unisce a noi Federico; l’appuntamento è a Rovere prima delle 7, a li ci troviamo puntualissimi. La partenza l’avevo progettata da Capo d’Acqua anche se tante volte era già stata usata come base di partenza; la cresta mi sembrava una impresa non adatta a questi tempi; lunga, noiosa e poi vuoi mettere uscire da bosco al cospetto della Neviera? Non ci rinuncerei per nulla al mondo una volta da queste parti. E così, col giorno appena fatto, alle 7e 20 prendiamo ad aggredire i nostri 1200 metri di dislivello partendo dal sentiero accanto allo Chalet del Sirente, Chalet che nel frattempo è stato demolito (i ruderi intendo) per dare luogo ad un cantiere e ad un nuovo Chalet che trovandosi ormai a lavori quasi ultimati promette essere una struttura accattivante ed utile in tutte le stagioni. La luce del giorno è ancora tenue ma basta per farci entusiasmare dei colori di un bosco vestito di un manto autunnale sfolgorante. La cromia degli alberi ci accompagnerà per buona parte del percorso e via via che il sole prende il sopravvento sulla giornata i colori cambiano e diventano sempre più raggianti. Il poco verde rimasto sparisce quasi tra le tonalità oro e rosso delle foglie mentre i primi raggi del sole accendono il fuoco sopra le nostre teste. Le foto che scattiamo saranno solo lo spunto per il ricordo; nulla ci ridarà quei momenti e non basteranno certo a far toccare ai nostri sensi l’intensità di quegli attimi una volta seduti davanti ai nostri PC. Fino ai 1500 metri l’entusiasmo per i colori ci fa sentire poco il pur ripido sentiero e progrediamo con un passo sostenuto. Sopra i 1500 metri gli alberi sono ormai quasi spogli ed il bosco ha una veste già quasi invernale, ma sappiamo che stiamo per essere coinvolti da un altro grande spettacolo. Per Federico questo sentiero è una prima volta; uscire dal bosco e trovarsi al cospetto di uno degli angoli di Appennino più somigliante alle Alpi lo sbalordisce. La Neviera del Sirente è sempre uno spettacolo imponente anche per chi come me ci è stato e ritornato tante volte, figuriamoci per lui! Dopo un attimo di sosta riprendiamo in direzione nord-ovest e dopo un ulteriore corto passaggio nel bosco cominciamo ad aggredire il pendio. Il sentiero è sempre ben marcato, sale aggirando l’enorme sperone che ci divide dalla Val Lupara e ci conduce ad un’aerea sella da dove lo sguardo verso est non ha più confini. La davanti, in una giornata di uno splendore annunciato fa bellissima mostra di se tutta la catena del Gran Sasso; solo due settimane prima i miei compagni erano sulle vette orientale e centrale del Corno Grande, c’era nostalgia nei loro sguardi ed in quel momento mi sono sentito banale con i miei progetti basati solo su lunghe camminate. Un attimo a goderci l’immensità del panorama e riprendiamo la marcia; saliamo ancora mentre dalle creste sbuffano frangie di nuvole ora chiare ora minacciosamente scure. C’è vento lassù e temo il solito effetto Sirente. Questa montagna non mi ha mai amato e comincio a temere che anche quasta volta non mi permetterà di goderene appieno. Siamo ormai dentro la Val Lupara, stretta e ripida; il sentiero procede sotto i bastioni di cresta e al salire di quota diventa sempre più ripido. Spuntiamo in cresta e veniamo colpiti da un vento ancora più teso; la visibilità non è nulla ma certo non ci fa godere del paesaggio che conosco ma che a stento ormai ricordo. Per fortuna da queste parti hanno fatto un buon lavoro di sentieristica; i segnali e le pendenze ovvie ci conducono verso la vetta principale del monte che raggiungiamo una mezz’oretta dopo essere sbucati dalla valle. Sono le 10,05 quando avvistiamo la bella silouette, anche se a dire il vero poco consona all’ambiente, della croce acciao inox della vetta del Sirente. Scena già vista; vento teso e freddo da farci congelare le dita, visibilità di 30 metri e tutto il bello da vedere nascosto ai nostri sensi. Che iella che ho con questa montagna; una sola volta ho potuto godere della vastità di questa cima, della verticalità della sottostante Valle Inserrata e comincio a pensare che in quella occasione sia stata solo una questione di tempo visto poi come la montagna si è saputa vendicare di noi facendoci passare una delle più allucinanti notti passate in tenda; ed era il 3 di Agosto! Ma che questa montagna non mi voglia? Solo il tempo di qualche scatto, forse solo utile a testimoniare la nostra presenza e di certo a scongiurare il blocco delle dita dal freddo pungente che ci aveva attanagliato, che ripartiamo alla ricerca di Punta Macerola; diretti verso nord siamo stati costretti a percorrere in su ed in giù, per di qua e per di là, tutta la cresta. La poca visibilità, le cime che si susseguivano a poche decine di metri, tutte simili e tutte più o meno alla stessa altezza; di punta Macerola sapevamo solo che era 90 metri più bassa del Sirente e che si trovava a circa un chilometro verso Nord; la nebbia ha fatto il resto. Era impossibile individuarla a distanza, non rimaneva che toccarle tutte alla ricerca di una traccia, di una scritta, di una croce che sapevamo non esserci per essere sicuri di averla calpestata. Una processione di punte è stata, con affacci mozzafiato verso la valle sottostante; un occhio all’altimetro ed uno ai sensi per capire se avevamo o meno percorso un chilometro. Su di uno sperone l’altimetro segnava esattamente 90 metri sotto la quota del Sirente; l’affaccio verso il laghetto meteorico era stupendo, sotto era completamente privo dalle nebbie, tutto poteva condurci a pensare di essere sulla nostra seconda cima. Ci siamo scattati le foto ma Luca era perplesso; la lezione della Cimetta lo ha fatto diventare guardingo, ha stillato il dubbio, ha voluto perlustrare la zona; ha insistito per una cima ancora e poi un’altra. Io e Fedrico dietro ad accontentarlo e mentre stavamo quasi per vivere di certezza che una di quelle toccate doveva pur essere Punta Macerola, Luca in preda alla smania ci lascia sul posto e parte per un’altra cima ancora. Voi rimanete, ha detto, io vado a toccare quest’altra. Aveva una convinzione tale, una forza come mai l’ho sentita che non ho esitato a seguirlo. E questa volta Luca ha dato dimostrazione di aver imparato le lezioni che la montagna gli ha impartito, cosa che invece ancora una volta non ho fatto io. Un ometto di vetta ed una scritta sopra a pennarello “Punta Macerola 2258 mt”; e l’esultanza di Luca, meritata, giusta, consacrante. Erano le 10e 45! Tra pacche sulle spalle per aver raggiunto l’obiettivo, le congratulazioni dovute a Luca per la sua determinante testardagine e qualche foto liberatoria passiamo solo pochi istanti in vetta. Il motivo è sempre lo stesso; il freddo insolitamente ficcante che ci costringe a camminare per ritovare la temperatura corporea repentinamente perduta. Ora il prossimo obiettivo era la cima “dispersa”, lontana, dall’altro capo della catena, verso sud; solo io e Luca sapevamo davvero quanta distanza ci separasse mentre Fedreico era ormai vittima della nostra perversa determinazione. Studiando il percorso e cercando di seguire i frequenti e quanto mai utili segnavia, uno ogni 30-50 metri segno che da queste parti la visibilità è davvero sempre cosa precaria, cerchiamo di seguire un percorso lontano dalla cresta, il più possibile in quota. Sappiamo quanto percorso abbiamo davanti, ogni dislivello risparmiato sarà tregua per le nostre gambe. Così facendo viaggiamo veloci e sempre immersi nella nebbia; sfioriamo di nuovo la cima del Sirente, la croce sembra un fantasma a guardia dei bastioni, il passo è cadenzato e veloce, per distrarci parliamo anche del più e del meno. Scendendo dalla vetta principale, passiamo di nuovo sopra lo sbocco della Val Lupara e poco più avanti la visibilità migliora, affiora il sole, lo scenario si apre. Mi volto indietro, per fortuna nessuno si accorge del mio sorriso beffardo nei confronti di questa montagna che per l’ennesima volta si è presa gioco di me! In quel momento gli ho rivolto l’ennesima promessa; io a lei; tornerò e tornerò ancora finchè non potro sedermi sotto la croce a rimirare l’ambiente fino a stancarmene. E quel giorno io ed il Sirente avremo fatto pace. Per questa volta, per l’ennesima volta era andata così. Ora contava solo raggiungere Monte San Nicola, lontano chissà quanto ancora. Lo studio delle pendenze ci portava accuratamente ad evitare i picchi; stavamo allungando il percorso aggirando tutte le varie sommità di cresta ma viaggiavamo veloci. Lo sbocco della Neviera ed il mondo diventava confidente; ogni pendenza era ormai una fotografia che resuscitava dalla nostra memoria. E intanto le nuvole erano salite e salite di tanto; il sole sparito ed il vento diminuito; le condizioni favorevoli per viaggiare a mezza costa veloci come avessimo cominciato solo in quel momento. Federico chiedeva a tratti regolari se fossimo di li ad arrivare, io e Luca sapevamo che c’era ancora molto da percorrere per toccare quel piccolo emblema che a distanza dettagliava la croce e quindi la nostra vetta. Le condizioni erano stupende, il nostro obiettivo era a portata di vista; sentivamo ormai in noi la certezza che saremmo arrivati a destinazione. La pratica da svolgere era solo quella di sopportare la stanchezza ma a questa consuetudine eravamo rodati; ci sentivamo già al cospetto del simbolo della cristianità della nostra personalissima conquista. A tratti la conformazione della montagna ci costringeva a risalire il pendio senza non pochi sforzi, eravamo già stanchi quando la croce rimaneva ancora lontana, più che stanchi erano i piedi ad essere ormai lacerati dallo sforzo ma nessun passo è venuto meno; lo studio delle pendenze era accurato, Luca guidava ed io mi sorprendevo di quanto avesse appreso in poco più di un anno di montagna. Ad un ritmo forsennato e con Federico muto, forse a domandarsi il perché di tanta nostra determinazione, ci avvicinavamo velocissimi alla nostra meta. Toccata la cresta per avere una maggiore consapevolezza del territorio che avevamo davanti ci accorgiamo che non rimanevano da superare che un paio di sommità. Monte Canale lo passiamo di slancio senza nemmeno soffermarci un secondo per celebrarlo. Aumentiamo il ritmo invece di rallentare, mi rendevo conto che stavamo esorcizzando il desiderio di conquista di questa vetta posta ai limiti del mondo. Scendiamo, e risaliamo pendii ed alla fine siamo al cospetto dell’ultima sella. Il pendio di fronte è l’ultima nostra fatica; importante, visto il percorso fin qui lasciato alle spalle ma in una sorta di concentrazione per gustarci la vittoria, rallentando e contornado il pendio ognuno per una propria traiettoria, lo consumiamo. Con lo sguardo avanti pregustavo quello spuntare fievole della sommità della croce; quel momento topico, incantevole, privo di dimensione in cui tutto si attenua, sparisce ai sensi; il traguardo che si palesa nel braccio di una croce e la fatica, la stanchezza, l’emozione di essere li per arrivare, il dolore delle gambe che spariscono. Solo il senso di leggerezza, di felicità intima per aver saputo sopportare, cercare e volere quel momento, istante di una vita e non per questo meno importante di intere giornate, mesi vissuti a cercare il vago. Luca mi lascia il passo, chissà, forse conscio della mia immensa gioia di essere finalmente li, una montagna secondaria, per pochi metri un duemila, una vetta erbosa quasi insignificante ma desiderata come tutte le cose che rimangono li, sole, lontane, prive quasi di un perché se non quello della determinazione di volere che fosse propria. Erano esattamente le 13 del pomeriggio quando braccia levate al cielo aggiungevo al mio curriculum questa bellissima conquista. E poi dietro tre passi Luca e poi ancora Federico. Stavamo camminando dalle 7 della mattina, su e giù per quella maestosa cresta ed eravamo felici e leggeri come se fossimo stati scaricati li da un elicottero. Le foto, tante, di un posto nuovo e desiderato; gli scenari che davano finalmente un volto a questa montagna; chissà quante volte intravista dall’autostrada. La, verso sud-ovest la centrale eolica tante volte osservata prima di arrivare a Cucullo. Mi sorprendevo a pensare a tutte le volte che passando di nuovo di li volgerò lo sgaurdo verso questa gobba e l’apostoferò come : “ eccolo la il Monte San Nicola” e la mia voglia di territorio, di conoscerne i dettagli si faceva ancora più ricca, più capillare. Ero così felice che tutte le stanchezze erano svanite e a giudicare delle reazioni anche i miei compagni erano dello stesso avviso. Attenuata l’euforia da vittoria e dopo le tante foto di rito abbiamo cominciato a pensare al ritorno. Avevamo circa quattro ore di luce e l’ultimo lungo tratto dovevamo attraversarlo nel bosco. Già prima di toccare il Monte San Nicola, Luca e Federico insistevano nel cercare di raggiungere per il ritorno quella strada sterrata ben marcata a valle, settecento metri più in basso, in mezzo ai pratoni e al bosco ai piedi della dorsale. Un carrareccia ben marcata ed in piano, che secondo loro ci avrebbe fatto raggiungere comodamente Capo d’Acqua. Prima di raggiungere Monte San Nicola non li ascoltavo nemmeno refrattario come sono ad abbandonare i sentieri conosciuti. Temevo il ritorno della nebbia e del buio e non desideravo lasciare i contorni ormai familiari della cresta che rappresentavano per me una sorta di filo di Arianna per il ritorno. Poi per accontentarli in vetta al San Nicola ho voluto consultare la carta per vedere dove sbucasse quella sterrata ed era esattamente come Luca e Federico avevano immaginato il territorio. Ci avrebbe portato comodamente in bocca al sentiero di ritorno. Convinto non rimaneva che trovare il giusto pendio per guadagnare valle. Non a nord del San Nicola come avevano frettolosamente prospettato i miei compagni; troppi balzi incerti laggiù in fondo al pendio, al limitare del bosco. Dovevamo continuare a scendere verso sud per poi prendere il primo pendio fattibile per conquistare il bosco. E così è stato; poche centiania di metri più sotto il pendio verso il bosco, pur ripido, non sembrava rappresentare un ostacolo per raggiungere il bosco. Qualche riferimento per non perdere la direzione, un picco la davanti e nel dubbio che il bosco non ce lo facesse rintracciare anche una sincronizzazione con la bussola e poi via, giù a rotolare per il ripido pendio erboso. Una prova per le caviglie, ma in meno di mezz’ora eravamo già seicento metri più in basso. Al limitare del bosco, sopra Secinaro che faceva bella mostra della sua antica presenza ci siamo fermati, per riposare un po’, per rifocillarci e per dettagliare l’ingresso nel bosco ad evitare di girare inutilmente, a marcare ancora la direzione da tenere. Un quarto d’ora idilliaco. La tensione della discesa che si scioglieva, il tepore di una ritrovata quiete priva del fresco vento di cresta ed il confortante incantevole paesaggio dominato dai colori del bosco autunnale ci faceva toccare con mano l’intima serenità del momento. Un quarto d’ora che avrebbe meritato di essere moltiplicato ma dovevamo riprendere il ritorno e la ripresa coincideva con l’ingresso nel bosco. Quieto, dalle luci ormai tenui e dominate dal marrone delle foglie a terra; il sole era dietro le alte creste, i toni erano delicati, riposanti. Ogni volgere di sguardo avrebbe meritato una fotografia. Intercettiamo quello che sembra essere un sentiero tra gli alberi che ben presto diventa strada, una di quelle strade senza perimetro costruite per la manutenzione del bosco. Più avanti dei boscaioli moderni, indigeni intenti al taglio degli alberi per la produzione della preziosa legna che da li a poco sarebbe diventata vitale per la vita di molte famiglie del posto, si fanno sentire con le loro motoseghe; prima di questi sono però i loro cani, furenti nel vederci invasori del loro territorio ad avvistarci. Come non comprenderli anche se qualche cinque minuti di ansia ce li hanno davvero fatti passare!! Nemmeno l’accorrere di uno dei loro proprietari è servito molto a calmarli, ci hanno seguito a debita distanza furenti ed abbaianti ad accompagnarci fuori dal loro territorio vitale. Un po’ intrusi ci siamo sentiti. Abbiamo abbandonato il sentiero che viaggiava in direzione diversa dalla nostra per seguire l’ago del nord della bussola. Intercettiamo la carrareccia vista dall’alto e ci siamo sentiti come arrivati. Un parco sembrava quel luogo, il Piano di Canale, e forse un parco lo era davvero visto che tante panchine sotto stupendi faggi secolari abbiamo incontrato disseminate qua e la lungo il sentiero che stavamo percorrendo. Poi Fonte Canale, con l’omonimo lago, poi mandrie di nerissimi cavalli allo stato brado, e poi calma e pace. Che luogo meravigioso era quello, una ippovia in fondo e mai ho rimpianto di non saper andare a cavallo come in quell’istante. I chilometri si accumulano passo dopo passo ma viaggiamo veloci senza sosta sorprendendoci della nostra durevole vitalità. Di tanto in tanto entriamo dentro tunnel di faggi secolari dai colori emozionanti; proviamo a portarceli a casa catturandoli con i nostro obiettivi ma sappiamo che la nostra rimarrà solo una speranza ora ed una delusione poi. Rientriamo nel bosco ancora una volta e ne usciamo di nuovo in una radura al cospetto della Neviera e della val Lupara. Sono lassù, davanti e sopra di noi; monumenti naturali immensi nella loro immobile bellezza. Li guardiamo ancora sorpresi di quanto sia bella questa montagna. Sentiamo di essere felici dentro per questa giornata che si sta concludendo, per quanto ci ha saputo dare in diversità di paesaggi e condizioni ambientali, per questo tracciato di ritorno inatteso e non studiato, per la stanchezza, nobile ma massacrante che si sta impossessando di noi. Rientriamo nel bosco consapevoli di essere negli ultimi momenti di questo itinerario. Riconosciamo alcuni tratti, ne abbiamo la certezza, stiamo per arrivare. Mentre Luca e Federico continuano imperterriti nel loro ritmo io rallento, mi faccio distaccare; assaporo gli ultimi istanti di questa meravigliosa atmosfera, il sielenzio ed i colori del momento. So che da li a poco mi mancheranno; so che mi rimarranno dentro. So che quel sentiero, quel luogo, qual’ora ce ne fosse ancora bisogno, mi hanno ancora una volta stregato. Mi fermo, mi volto e questa volta il sorriso non è beffardo. E’ benevolo, quasi ad accattivarmi la simpatia di questa montagna dispettosa. Ci tornerò perché l’amo e sono certo che la prossima volta mi mostrerà tutto il suo primordiale fascino. Sono le 15,30 quando raggiungo l’auto, i miei compagni sono già a rimettersi in sesto, più di otto ore sono passate da quando abbiamo mosso i primi passi, sono stanco ma rimpiango già la giornata appena conclusa.